Barcellona: storie d’emigrazione… culturale
Dopo Berlino, il nostro Luca Pakarov se n'è andato a Barcellona. Per raccontare un'altra vicenda tutta italiana...
Siniori e siniore ecco quindi Tonj Acquaviva degli Agricantus, mitico gruppo siciliano (nel 2013 è uscito il loro ultimo lavoro: Kuntarimari) che, fra le altre cose, da poco ha inaugurato l’Agricantus Cafè, nel quartiere di Les Corts, e Alessio Arena, fresco vincitore del festival di cantautorato Musicultura, musicista e scrittore (per RS abbiamo recensito i libri: L’infanzia delle cose e Il mio cuore è un mandarino acerbo), dopo un’infanzia a Napoli, da sei anni vive a Barcellona.
Tonj, cosa spinge un musicista con la tua esperienza a lasciare l’Italia? C’è stato un momento in cui hai detto: “Basta”?
“Già c’ero cascato negli anni ’90, ai tempi di Mani Pulite, volevo ripuntare sull’Italia dopo essermi proiettato oltre le Alpi per ‘carenza d’ossigeno’, pensavo che le cose potessero cambiare e volevo dare anche un mio contributo, ma l’incontro col produttore di turno con royalties inesistenti e la promessa che un giorno ‘vedrai che cambierà’, l’impossibilità di vivere in un paese normale, zero servizi e una arroganza montante miscelata a insane polemiche, mi hanno fatto dire basta, la vita ha una scadenza, c’è un mondo fuori! L’esperienza negativa fatta con l’album Millenium klima uscito a mio nome nel 2009 mi aveva spompato, il disco aveva sofferto l’aria di restaurazione. Addirittura, nella presentazione a Roma, il conduttore si era preso la briga di spiegarmi che l’album era poco rassicurante e la ricerca era una cosa che spaventava il “suo” pubblico!”.
È una storia che ho già sentito! Sei siciliano ma gli Agricantus da anni parlano le lingue del mondo, sempre ispirati agli altri e al Mediterraneo, cosa trovi a Barcellona che ti permette di esprimerti in questo senso?
“Barcellona possiede un’energia dinamica che ti consente di fare molteplici cose nella stessa giornata, la mattina puoi passeggiare nelle colline intorno alla città e il pomeriggio startene sulla spiaggia, per poi la sera finire a un concerto all’aperto al teatro Greco, il tutto senza barriere architettoniche e con i mezzi pubblici! Quest’energia alimenta la creatività e in più, per me che compongo musica con i ‘suoni del mondo’, il contatto con le diverse etnie e musicisti che abitano in città è molto stimolante. Nel mio ultimo lavoro ci sono molti ospiti internazionali, anche in questo caso alcuni artisti italiani hanno confermato una poca propensione allo scambio. In questa città ho iniziato un percorso musicale che, dopo 12 anni, mi ha permesso di ‘partorire’ un nuovo concept album Agricantus, Kuntarimari (in siciliano, racconti del mare, N.d.R.), vitale è stata l’accoglienza dei barcellonesi della mia musica, ho avuto diversi inviti a trasmissioni di radio nazionali e la presentazione dell’album è stato seguito da due emittenti televisive, una delle quali ci ha fatto un reportage. L’incontro con la casa discografica Discmedi è stato solo la conferma della professionalità catalana. Dopo aver perso un anno appresso ai discografici italiani ho contattato Discmedi che, nell’arco di quasi 4 mesi e firmato un contratto con edizioni Warner, ha distribuito l’album a livello mondiale!”.
Com’è cominciato il flirt con la capitale catalana? Qui hai aperto un locale, è il momento giusto secondo te? Te lo chiedo con un filo di scetticismo…
“Tutto è cominciato con un viaggio a Barcellona nel 2000 dopo un concerto a Granada, mi aspettavo qualcosa di simile all’Italia e, invece, mi sono confrontato con una colossale organizzazione, una rara via di mezzo tra Nord e Sud, aggiungici poi l’aver trovato una casa sulle colline con vista sul mare… Nel 2010 ho deciso di chiudere lo studio di registrazione a Roma e trasferirmi. Nei miei viaggi ho sempre messo subito dopo la curiosità per la musica locale quella per la cucina! Due ottimi punti di vista per conoscere le popolazioni tanto che, in una città dall’aria internazionale, ho deciso assieme alla mia compagna di aprire un posto che avesse la filosofia Agricantus, cioè partire dalla Sicilia per incontrare altre etnie e farne una cucina fusion. Anche qui la conferma che se proponi qualità la città ti accoglie bene”.
Durante il momento di Manu Chau da solista (fine anni ’90), viveva nel barrio Gotico (ne parlo con condizione di causa perché gli ho scroccato da bere a più riprese), a Barcellona si respirava una felice aria di ribellione, che poi però si è molto conformata – a livello architettonico e umano – alle altre capitali europee. Almeno dal mio punto di vista. C’è un quartiere che ritieni speciale per chi suona?
“A differenza degli anni passati, il movimento di protesta contro l’ordine mondiale (15-M, N.d.R.) è sfociato nel pragmatismo, come difendere la gente dagli sfratti, informare sullo stato delle cose o fare gli orti urbani che qua hanno raggiunto quota cinquecento. C’è stato un’apparente smembramento del movimento a favore dell’azione sul territorio eppure, in ogni caso, la città ha sviluppato una linea internazionale. Più che i quartieri a me piace incontrare gli artisti che suonano in strada, forse perché io l’ho fatto per un bel po’ girando tutta Europa. Ciò ti permette d’incrociare storie umane, preparazione musicale e creatività inaspettate”.
Mi dici tre cose da cambiare in Italia per favorire la musica? Togliti pure qualche sassolino…
“Tre cose… vediamo… sempre senza generalizzare: uno, i discografici, due, l’atteggiamento mentale da e verso gli artisti, tre, i giornalisti… ma forse questo non te lo dovevo dire!”.